La miglior vita possibile

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Maty
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La miglior vita possibile

Messaggio da Maty » 14 ott 2016, 17:54

LA MIGLIOR VITA POSSIBILE

Capitolo 1


Leonard Horatio McCoy era medico, specializzato nella chirurgia d’urgenza e traumatica, da oltre quindici anni.
Si era laureato giovanissimo; era considerato dai suoi insegnanti e dai suoi colleghi come uno dei nuovi geni della scienza medica, e appena specializzato aveva pubblicato articoli sulle più importanti riviste della Federazione.
Aveva lavorato nel più importante ospedale degli Stati Uniti del Sud, ed in meno di un anno era diventato il primario del pronto soccorso.
Aveva studiato e trovato la cura per la xenopolicitemia, la malattia che aveva ucciso suo padre, ricevendo per questo uno dei più importanti premi della medicina moderna.
Dopo il suo divorzio si era reinventato una vita ed una carriera, entrando nella Flotta Stellare e buttandosi alle spalle l’alcolismo in cui era caduto.
Era diventato il CMO della nave ammiraglia, salvato centinaia e centinaia di vite, ed una razza dall’estinzione definitiva.
Ed ora, davanti a quel corpo, coperto pietosamente da un lenzuolo macchiato di sangue, Leonard Horatio McCoy sentiva che la sua vita era stata in fondo un fallimento.
Perché la sua competenza come medico, le sue intuizioni, la sua innata capacità di far fronte alle emergenze più disperate non erano riuscite a supportarlo nel compito più importante: salvare il suo migliore amico.
Il suo fallimento come medico e come uomo stava lì di fronte a lui, steso sul quel biobed.
James Tiberius Kirk era morto alle ore 19,05 della data stellare 2262.4, e lui, il suo migliore amico e medico, non era riuscito ad evitarlo.

“Dottore…”
La voce di Spock gli giunse come ovattata.
“Dottor McCoy” chiamò ancora Spock.
McCoy si girò con aria assente verso il vulcaniano, senza trovare la forza di rispondere.
Era ancora vestito con gli abiti chirurgici, quasi completamente imbrattati di sangue. Il sangue di Jim.
“Dottore, l’infermiera Chapel mi ha detto che ancora non ha compilato il certificato di…”
La voce di Spock si bloccò con uno strano sospiro.
Solo allora McCoy si accorse delle borse scure sotto gli occhi del vulcaniano e del tremore nelle sue mani.
Da quando Spock era risalito dal pianeta, con Jim morente tra le braccia, non aveva mai lasciato l’infermeria: indossava ancora l’uniforme imbrattata col sangue del suo capitano ed amico.
McCoy diede una rapida occhiata al di là dalle finestre della sala operatoria.
L’equipaggio di comando stava ammassato sulle sedie della sala di attesa, Uhura praticamente sepolta fra le braccia di Scotty, Sulu immobile in piedi vicino alla porta, e Chekov seduto sulla sedia con la testa tra le mani.
Più in disparte, curvo ed ingobbito, l’ambasciatore Spock, da tutti ora chiamato Selek, sembrava quasi una statua di pietra, i lineamenti scolpiti dal dolore malcelato.
McCoy si chiese per un attimo cosa avrebbero fatto ora, come sarebbe stata la vita per tutti loro, ma il pensiero del futuro era troppo difficile da affrontare. L’unica cosa a cui riusciva a pensare adesso era il dolore bruciante che lo divorava, come un fuoco dall’interno.
“Dottore… se lei non compila il certificato non si può trasmettere la notizia al Comando di Flotta…”
McCoy notò che Spock stava accuratamente evitando di guardare verso il biobed, tenendo lo sguardo su di lui, come se non guardare il corpo del suo capitano potesse lenire il dolore.
Dal canto suo McCoy si era rifiutato di dichiarare ufficialmente la morte del suo migliore amico, come se il ritardare quel momento potesse cambiare qualcosa.
“Sì, lo so, Spock… è illogico… ma dammi solo un altro minuto…” balbettò
Spock rimase per un po’ in silenzio.
“Certo dottore… aspetto fuori” disse triste, prima di girarsi ed uscire.

“Bene… a quanto pare non riesco mai a salvare le persone a cui tengo di più” sussurrò a se stesso McCoy, pensando alla morte di suo padre, avvenuta pochi mesi prima che trovasse la cura alla malattia che lo aveva ucciso.
Avvicinò lo sgabello al biobed dove giaceva il suo migliore amico, e si sedette incapace di sollevare il lenzuolo che copriva il corpo martoriato.
“Mi spiace ragazzo, mi spiace davvero…” sussurrò mentre sollevava il telo quanto bastava per prendere una mano gelida fra le sue.
Sapeva che questo prima o poi sarebbe successo, se lo era detto ogni volta che Jim era entrato in infermeria ferito, sanguinante o in arresto cardiaco.
Ma era sempre riuscito a rimetterlo insieme, e tutti i cattivi pensieri erano scivolati via al primo sorriso sbilenco che Jim gli aveva fatto al risveglio.
Ma non ora.
Ora non era riuscito a salvarlo.
“Sei proprio uno stronzo Jim Kirk… un vero stronzo… cosa facciamo ora senza di te? Cosa faccio io su questo barattolo di latta senza di te?” balbettò, mentre sentiva le lacrime salire.
I polpastrelli lisciarono il palmo della mano, rigida e gelida, sino a che un piccolo pensiero razionale gli attraversò la mente.
“No… non può essere…” si disse mentre girava la mano e ne controllava il palmo.
La cicatrice… dov’era la cicatrice?
Due giorni prima Jim era arrivato in infermeria, tenendosi la mano destra insanguinata stretta al petto.
“Mai visto uno più maldestro di te… ti ho detto cento volte di stare lontano dall’ingegneria, ma tu niente” aveva borbottato il medico, mentre disinfettava la ferita.
Era un taglio profondo, ma Jim aveva rifiutato di sottoporsi al dermorigenenatore. Non c’era tempo, dovevano scendere sul pianeta, una fasciatura era più che sufficiente, la dermorigenerazione poteva aspettare il suo ritorno.
Così McCoy aveva fasciato la mano con bende ai polimeri e, borbottando sulla goffagine del suo capitano, l’aveva lasciato andare.
Era impossibile che una ferita del genere fosse guarita in due giorni, eppure ora non ne vedeva traccia sul palmo della mano bianca e gelida che stringeva.
Impossibile anche che la Chapel avesse usato un dermorigeneratore sul corpo di Jim senza un suo ordine.
Con il respiro mozzato McCoy sollevò il lenzuolo e, cercando di non cedere all’isteria, girò il corpo di schiena.
Conosceva il corpo di Jim in ogni particolare, anche meglio del proprio.
“Computer luci al 100%” ordinò, cercando sulla pelle le tracce che ricordava.
Nulla… la schiena era una delle poche parti di quel corpo martoriato rimasta integra.
Non c’erano… le tracce delle cicatrici che Jim aveva sulla schiena, frutto della sua permanenza su Tarsus IV, non c’erano.
McCoy aveva provato di tutto per farle sparire, cercando di far sparire con esse i ricordi terribili che Jim aveva della sua infanzia, ma era state mal curate ed ormai era troppo tardi.
Ora non c’erano più.
Con le mani che gli tremavano McCoy raccolse un estrattore dal cassetto accanto al biobed e lo poggiò su braccio.
In pochi secondi la fialetta si riempì di liquido scuro.
McCoy la prese e quasi travolgendo lo sgabello si diresse verso l’analizzatore.
Sentiva il cuore che gli batteva a mille e quasi non riusciva a respirare.
“Computer analizzare la presenza degli anticorpi della choriomeningite vegan” ordinò con voce tremula.
I minuti che la macchina impiegò per dare la risposta gli sembrarono secoli.
“Riscontro negativo” annunciò alla fine la voce metallica.
Un sorriso isterico gli si dipinse sul volto
“Ricontrollare” ordinò
“Riscontro negativo” fu la risposta.
Ora McCoy rideva istericamente.
Evidentemente richiamato dalle risate, Spock fece il suo ingresso, sul volto la sorpresa.
“Non è lui. E’ un clone” sbottò McCoy, mentre rideva e piangeva contemporaneamente.

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