Il vertice di Washington
Quello spot per il libero mercato e l'ultima passerella di George Bush
WASHINGTON —«Forse non lo sapete, ma sto andando in pensione...». In una cupa giornata di pioggia, George Bush ha chiuso con una battuta che voleva essere spiritosa e invece è risultata solo malinconica, il summit mondiale sulla crisi finanziaria. Un vertice suggellato da una forte dichiarazione di fiducia nel mercato — un vero e proprio «spot» per il liberismo economico — e col riconoscimento che la formula del G20 (riunione allargata ai principali Paesi emergenti) è più efficace del G8 per governare le sfide del Ventunesimo secolo.
Per il resto, nessuna decisione di applicazione immediata, ma un'agenda piena di cose da fare per rimettere in moto le economie ed evitare il ripetersi di crisi come quella nella quale siamo sprofondati. Soprattutto una stretta sorveglianza sulle agenzie di «rating», forme di regolamentazione per gli «hedge fund», la sollecitazione a non riconoscere ai manager maxistipendi che li spingano ad assumersi rischi eccessivi. Ma anche un «no» a regolamentazioni troppo strette — come quelle proposte dai francesi e, in parte, dagli inglesi — che i mercati potrebbero percepire come una camicia di forza. Quello che ha dato ieri l'addio agli altri «grandi» della Terra è un «apprendista stregone» invecchiato dalle sconfitte politiche interne, dal pessimo esito della guerra in Iraq, dalla sua crescente impopolarità, da un disastro finanziario che ha origine nelle politiche di «deregulation» esasperata perseguite dalla sua Amministrazione.
Ma i leader europei e asiatici che si aspettavano un presidente dimesso, rassegnato, si sono trovati davanti un uomo ancora pieno di orgoglio che non ha ammesso le responsabilità degli Usa nella crisi e che ha giustificato le controverse nazionalizzazioni delle ultime settimane con la necessità di evitare un crollo «peggiore di quello della Grande Depressione». Bush ha chiesto e ottenuto un impegno dai toni molto forti a sostegno dei meccanismi del libero mercato, contro ogni forma di protezionismo, a favore delle norme che proteggono la proprietà privata e vietano forme di concorrenza sleale. Addirittura, nel comunicato finale è rispuntato l'impegno a siglare quanto prima l'accordo commerciale del Doha Round. Probabilmente un impegno solo formale, ma è significativo che il tema sia stato ripreso dagli stessi Paesi protagonisti, qualche mese fa, di uno scontro che sembrava aver definitivamente sepolto questo difficile negoziato.
Insomma, il bicchiere è certamente in gran parte vuoto, ma gli impegni presi non sono affatto irrilevanti. Soprattutto se consideriamo che, per la prima volta, a sottoscriverli non sono solo i Paesi dell'Occidente industrializzato (un'area abbastanza omogenea), ma anche economie emergenti con interessi e situazioni interne molto diverse come Cina e Brasile, Sud Africa e Indonesia. Certo, da domani andrà verificata la reale volontà dei Paesi del G20 di concretizzare gli impegni presi: il summit, ad esempio, ha riconosciuto la necessità di riformare Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale dando più peso ai Paesi emergenti, ma ancora ieri il premier del Giappone — il Paese che darà il maggiore contributo (cento miliardi di dollari) alla ricostituzione del capitale del Fmi — si è mostrato poco propenso a fare un passo indietro, lasciando più spazio alle altre nazioni asiatiche.
Quanto alla ridefinizione delle regole del sistema finanziario internazionale, il risultato più significativo è l'investitura ricevuta dal Financial Stability Forum che, con l'allargamento alle rappresentanze dei Paesi emergenti, assume la dignità di vera istituzione multilaterale, a fianco di Fmi e Banca Mondiale. Un indubbio successo per Mario Draghi che l'ha fin qui guidato con saggezza, senza strappi, guadagnandosi la fiducia di tutti. Bush ha ammesso che servono nuove norme, ha citato l'emergenza dei «credit default swaps» (denunciata inutilmente da oltre un anno, ad esempio, dal finanziere George Soros), ma ha ribadito di temere soprattutto che ora si ecceda in senso opposto, con una «overregulation».
Bush è anche riuscito a regalare al suo successore un certo respiro. Sarkozy voleva un altro vertice entro cento giorni: cioè poco dopo l'insediamento di Obama alla Casa Bianca. Ieri è stato deciso, invece, di prendere più tempo: il prossimo summit si riunirà a fine aprile. Il nuovo presidente avrà tutto il tempo per prendere in mano i principali dossier della crisi. Stanco, ma confortato dall'aver salvato, sia pure con strappi e bruciature, la bandiera del libero mercato, Bush ieri sera se n'è tornato alla Casa Bianca attraversando una Washington che lo sta già dimenticando. Una città incredibilmente zeppa - dai negozi degli aeroporti a mille botteghe del centro, alle bancarelle degli abusivi, di «memorabilia» che celebrano non il passato ma il futuro: magliette, cappelli, sciarpe, perfino «puzzle», che inneggiano a Obama e alla nuova era della speranza.
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